domenica 31 agosto 2008

Una felicità inspiegabile

Strinse nel pugno una zolla di terra soffice. Era la prima volta che ne possedeva un po', tutta per sé.
Sensazione strana e inebriante, per un uomo fatto, che ormai aveva superato la cinquantina. A quella età non si compra per la prima volta un pezzo di terra per farci davvero nascere sopra qualcosa. Semmai per assaggiare il senso di una vita che poteva essere.
C
omunque Klaus von Behren ci metteva buona volontà, questo bisognava riconoscerglielo. Cercava di imparare in fretta tutto il possibile, tempi di semina, innesti, potature, raccolta. Due susini, il boschetto di meli, alcuni alberelli di uva spina e il ciliegio in fondo all'orto, attendevano impazienti cure appropriate. Ma i problemi maggiori li incontrava con Frida. Strizzare quei capezzoli gonfi di latte all'alba, era davvero al di là delle sue forze. Del resto possedere una mucca faceva parte del suo disegno originale, del suo progetto. Che lui si riprometteva di seguire con grande determinazione.
Nella sua precedente vita era quello che si poteva dire un tedesco benestante. Curatore fallimentare presso il tribunale civile di Stoccarda, famiglia agiata, relazioni sentimentali discontinue e superficiali, una bell'attico in un palazzo in centro città. Una vita superflua, come tante.

La passione per la Lettonia nacque per caso. Fu durante un processo per il fallimento di un'azienda intestata ad un cittadino lèttone. In tribunale la cosa andava per le lunghe, l'avvocato dell'imputato imponeva mille cavilli, sottoponendo al tribunale svariate proprietà del lèttone nel proprio paese, come garanzia per la copertura dei debiti. Klaus prima di allora a malapena avrebbe saputo indicare la posizione di quel piccolo Stato sulla carta geografica. Ma era in quella fase della vita, in cui ci si rende conto che sta ormai per scadere il tempo per qualsiasi cambiamento si abbia ancora la forza di fare.
Così un giorno avvicinò con la massima discrezione l'avvocato del lèttone e gli chiese, sebbene non fosse una cosa opportuna data la sua posizione, informazioni precise su alcune delle proprietà vantate dall'imputato. Finì che da alcune foto si innamorò di una piccola tenuta di proprietà dello sprovveduto imprenditore, che si trovava nella regione di Latgale, nel sud-est della Lettonia.
Sei mesi dopo, l'ex curatore fallimentare Klaus von Behren, a bordo della sua Volkswagen Touareg, alzava esuberanti nuvole di polvere sulla strada sterrata che lo conduceva alla piccola, dismessa fattoria Smilgas, nei pressi del villaggio di Balaški.


Il vero problema per Klaus era la lingua. In Germania, mentre si preparava a traslocare, aveva cominciato a studiare il lèttone, per mezzo di un corso per corrispondenza. Ma una volta giunto a Balaški si accorse che nella regione di Latgale il lèttone era una lingua facoltativa: da quelle parti, molti erano di lingua madre russa, e anche fra i lèttoni era il latgaliano la lingua più diffusa, una specie di antico lèttone che parlavano i primi abitanti di quel luogo.
Per fortuna, uno dei primi giorni dal suo arrivo comparve Martinš. Un ragazzino di dodici anni, scaltro e intelligente, con in testa un groviglio di ciuffi biondi, un viso dolce e curioso punteggiato da una moltitudine di lentiggini.
Lui sapeva parlare inglese, lo studiava a scuola, e così divenne il tramite di Klaus con tutta Latgale. Martinš aveva una particolare abilità nell'intaglio del legno e usava la baracca degli attrezzi di Klaus come laboratorio. Del resto faceva così anche con il precedente proprietario. Viveva ormai da anni con sua nonna, dato che i suoi genitori si erano separati a forza di prendersi a botte, e non ne volevano sapere l'uno dell'altra né tantomeno del frutto di quella loro infausta unione. Così Martinš si ritrovò a stare con la nonna, Sofja Ivánovna, che pure non si poteva considerare un'anima quieta. Anche il suo matrimonio con nonno Peteris era vissuto su una buona scorta di pedate e ceffoni, ma la particolarità consisteva nel fatto che era il buon Peteris a prenderle di santa ragione. E nessuno capì mai perché quel pacifico falegname lèttone avesse deciso di prendere in sposa quella russa con due braccia da carpentiere che già a quel tempo veniva chiamata Sofja Barga , Sofja la Terribile.
Martinš però ci stava bene, forse perché il suo carattere intraprendente e dinamico si confaceva alle aspettative della nonna che per lui nutriva quasi una specie di tenera attitudine.
“Com’erano tuo padre e tua madre, Martinš?” gli chiese un giorno Klaus.
“Mica me li ricordo. Insomma qualcosa, ma poca roba. Mi ricordo di più nonno Peteris. E’ morto quando avevo nove anni. E’ stato lui ad insegnarmi a scolpire il legno. Era un brav’uomo, nonna Sofja in fondo gli voleva bene, anche se a volte lo picchiava forte. Sai, era un tipo un po’ solitario e sempre indeciso. E poi non reggeva abbastanza l’alcool per farsi rispettare da queste parti”.


A Klaus piaceva parlare con Martinš nei pomeriggi di quella sua prima estate baltica. Dopo la mattinata di lavoro, fra il bosco di meli e l'orto, dove cominciavano già a spuntare le prime foglioline delle piante di cetriolo, se ne stava sotto il tiglio di fronte alla baracca e si fumava il sigaro mentre osservava Martinš intagliare le sue figure. La baracca degli attrezzi era diventata una specie di piccola bottega artigianale, con le madonnine scolpite che facevano bella vista, accanto ad uno strano fornetto a camino, sormontato da un enorme barile di latta. Klaus non immaginava a cosa servisse quello stranissimo forno, ma si vergognava di domandarlo a Martinš. Non era un uomo che tenesse in particolare conto l'orgoglio personale, ma non aveva proprio voglia di passare per uno stolto crucco di città.
Così era anche per le questioni della terra. Preferiva accumulare manuali sull'agricoltura, piuttosto che chiedere consigli a qualche contadino delle fattorie vicine. Se si era districato per anni nelle controversie fallimentari di tutto il distretto di Stoccarda, avrebbe ben saputo far crescere un po' di carote e cetrioli, e tirar fuori una buona raccolta di mele che gli consentisse, insieme al latte di Frida e alle uova del pollaio che già immaginava di metter su, di guadagnarsi da vivere.
In ogni caso aveva messo a fruttare in banca i guadagni della sua vita, quel tanto che bastava a rendergli in interessi di che stare tranquillo. Perché non si può mai sapere, con le mucche e le mele, specie in un posto così sperduto e fuori dalla grazia di dio.

In realtà, quel posto era forse il più vicino alla grazia di dio di tutta la Lettonia. Latgale era da sempre la regione più religiosa di tutto il paese, l'unica zona in cui il cattolicesimo aveva resistito alle riforma protestante e manteneva una forte preponderanza anche rispetto alle innate tendenze pagane dei lèttoni. La principale città della provincia, Aglona, era una famosa mèta di pellegrinaggio dei cattolici di tutto il Baltico.
Nei villaggi intorno invece era facile incontrare i dolci profili delle cupole ortodosse, dipinte di oro e azzurro, che erano frequentate dai numerosi russi del posto.
Klaus del resto aveva ben poco tempo per visitare i dintorni e interessarsi alle usanze locali, preso com'era dalla sua febbrile attività di agricoltore agli esordi. Si riprometteva di fare un passo alla volta, e il suo primo passo era far sbocciare frutti da quella terra.


Non era un uomo abituato alla bellezza. Era come se i suoi occhi dovessero ancora imparare un'alba, decifrare i colori del tramonto, accorgersi dei fiori appena sbocciati sui susini. Doveva fare uno sforzo supplementare di attenzione, per ridestare in sé la sensazione del piacere puro, quello che non aveva altre giustificazioni se non l'innocenza della propria esistenza.
Neanche la sua pinguedine era dovuta ai piaceri del cibo, quanto piuttosto ad un deprecabile difetto del metabolismo.
Si alzava al sorgere del sole, ma neppure si accorgeva dell'impalpabile soffio di luce rosa che all’alba accarezzava l'aia di fronte a casa, preso com'era dall'angoscia dall’appuntamento con i capezzoli di Frida, che di lì a poco avrebbe dovuto maneggiare.
In quell'estate luminosa i profumi di gelsomino, di pesche, di tiglio esplodevano a tratti in bolle di intensa fragranza, quando il vento si calmava e dalla terra risaliva una specie di vapore caldo, che si impregnava con gli odori dei frutti e dei fiori intorno. Eppure lui ci passava in mezzo con l'identica espressione bovina di Frida, quando si incamminava al pascolo.
Certe sere prendeva la strada per il lago di Ardava, e qui trovava un pontile adatto per mettersi a fumare il suo secondo sigaro della giornata. Un imbrunire color arancio, tuttavia una volta finì per emozionarlo. C'erano quegli arbusti sottili, quasi grano di lago, che ondeggiavano dentro lo specchio d'acqua, disegnando linee d'inchiostro davanti a quella tela fondo di porpora ch'era diventato il cielo. Se ne accorse accendendo il sigaro, quando la fiamma blu fu risucchiata da quella tavolozza impressionista di fronte a lui. Ne restò perplesso, quasi si sentisse impreparato a quella meraviglia. Poi rimase una mezz’ora a fissare quel concerto di colori, di un cielo che si frantuma dentro il lago in scaglie di ocra e vermiglio, senza che un pensiero riuscisse a farsi largo in mezzo a quello stupore.


La fine dell'estate si annunciò un pomeriggio di mezzo agosto, che riversò goccioloni di nuvole basse e pesanti sugli orti e sugli alberi a frutto di tutto il villaggio. Un'onda di elettricità cominciò a propagarsi per tutta Balaški, contagiando le anatre della fattoria di Gints, i maiali della vedova Grigorieva, il cavallo dei fratelli Baško, e i conigli dell'allevamento del vecchio Fëdor Andreevic. Soltanto Frida sembrava impassibile di fronte a quel trambusto.
In realtà non solo gli animali, ma pure i loro padroni, nelle fattorie vicine a quella di Klaus, parevano presi da una strana agitazione. Fu Martinš a spiegarlo a Klaus. Quell'agitazione aveva un motivo e solo lui aveva la chiave per risolvere la questione. Klaus non riusciva a capire, e si stupì quando Martinš gli preannunciò che l'indomani sarebbero arrivati tutti, dalle fattorie vicine, per chiedergli un colloquio, franco e risolutivo.
“Risolutivo di che?” domandò il tedesco.

La mattina dopo li vide arrivare in agguerrita schiera. Davanti a tutti, Sofja la Terribile, poi i fratelli Baško, il vecchio Fëdor Andreevic, il corpulento Gints, e la vedova Grigorieva, insieme al mezzadro Igor Aleksandrovic, che si era portato dietro un forcone da fieno, ad ogni buon conto.
Quella specie di riunione condominiale si svolse nella baracca degli attrezzi. Klaus aveva provato a farli entrare dentro casa, ma gli invitati opposero un netto rifiuto. Circostanza voleva che fosse la capanna degli attrezzi il luogo deputato all'incontro chiarificatore.
Il motivo, Klaus lo capì quando lo strepitìo e i gesti convulsi di tutti gli astanti, gli indicarono il fornetto con il barile di latta sopra, oggetto finora ignoto all'ex curatore fallimentare.
Era giunto il momento di fare quella domanda che restava in sospeso fin dal suo arrivo a Balaški: “Martinš, ma perché tutti indicano il forno? Di cosa si tratta?”.
“Vede, signor Behren, questo non è un forno. Guardi, basta infilare un tubo di metallo, qui sul lato della tanica che sta sopra il fornetto, e congiungerlo con il cilindro di rame e la serpentina che sono appoggiati qui accanto. Ecco, così. Vede adesso cosa diventa?”
“No Martinš, non riesco a vedere cosa diventa. Abbi pazienza, cerca di spiegarti meglio”.
“Si, signor Behren, ma in inglese non è così facile. Si tratta di un congegno, una specie di macchina. Un momento, aspetti, ieri sera sono andato a vedere sul mio dizionario di inglese”.
Martinš tirò fuori di tasca un piccolo foglietto e lesse: “Alambicco discontinuo, ecco. Questo è un alambicco discontinuo!”.
Klaus non capì neppure in inglese il significato di quella parola, "alambicco discontinuo". Ma appena la faccia smarrita del tedesco comunicò un senso di incomprensione di tutta la faccenda, ci pensò la brigata guidata da Sofja la Terribile a chiarirgli le idee, gridando all'unisono la parola, ben più comprensibile: VODKA!

Dunque Klaus ospitava nel cortile di casa la distilleria più prestigiosa di tutto il distretto di Balaški. Gli fecero capire che c'era un accordo tacito con i precedenti proprietari di quella fattoria che permetteva ai vicini di venire a distillare la propria vodka, una parte per il consumo familiare, e il resto per risollevare le povere rendite di quelle piccole fattorie. Era Sofja Ivánovna, poi, che pensava ad organizzare il trasporto e la vendita della vodka.
Gli sguardi di quegli anziani e agguerriti contadini erano dunque tutti fissi sul tedesco, in attesa di una sua risposta.
Klaus osservò in silenzio i bicipiti fenomenali di Sofja la Terribile, il forcone di Igor Aleksandrovic, il ghigno senza denti di Fëdor Andreevic e lo sguardo cupo dei fratelli Baško.
Alla fine proruppe in una risata irrefrenabile. Era un'avventura fantastica, e lui non solo avrebbe permesso ai vicini di usare l'alambicco, ma avrebbe persino dato una mano all'organizzazione. Finalmente si sentiva partecipe di qualcosa che lo entusiasmava.

Si buttò a capofitto in quella nuova impresa. Cominciò a studiare, come suo solito, ma questa volta non lesinò le richieste di informazioni ai suoi nuovi soci. Imparò tutto quello che c'era da imparare: che si poteva fare il mosto sia con il grano che con la segale, mentre quegli stupidi dei polacchi usavano le patate. E poi che il mosto, una volta lasciato macerare e fatto bollire, doveva essere filtrato con carbone di legno duro, meglio se betulla, o polvere di quarzo. Che i truffatori allungavano il mosto con la melassa, ma lì non si abbassavano a simili porcherie. La vodka di Balaški era famosa in tutta la provincia per la sua qualità pregiata. Imparò persino a berla la vodka, alla maniera russa, con pezzetti di mela da mangiare fra un bicchierino e l'altro.
Sofja Ivanovna era molto fiera di suo nipote Martinš che era riuscito a fare amicizia con quel tedesco un po’ tonto, ma in fondo di buon cuore. E Klaus da parte sua poté godere di un aiuto insperato nella cura dei meli e dell'orto, ma soprattutto nella mungitura di Frida. A turno, i vicini venivano a compiere quell'operazione che l'ex curatore fallimentare non riusciva proprio ad assolvere. Mise su anche il pollaio, e si apprestò a vivere il suo primo inverno di pace e tranquillità. La vodka ogni tanto riusciva a cavargli persino qualche sentimento poetico, mentre passeggiava intorno alla riva ghiacciata del lago Ardava. Non si era mai sentito tanto felice.

A Stoccarda era una mattina grigia e vagamente nevosa, un'insopportabile cappa di noia e freddo. La segretaria del tribunale aprì la posta con il solito fare indolente. Tuttavia una lettera proveniente dal ministero della giustizia lèttone colpì la sua attenzione. Chiedeva informazioni sulla fedina penale dell'imputato Klaus von Behren.
Fu così che in breve, in ogni ufficio del Tribunale di Stoccarda, si sparse la notizia che l'ex curatore fallimentare si trovava agli arresti nel penitenziario della città di Daugavpils, capoluogo della Latgalia, per detenzione di macchinario industriale atto alla produzione di vodka clandestina. Nessuno sapeva neppure immaginare dove fosse andato a finire il dottor Von Behren dopo aver lasciato il servizio al Tribunale. Aveva semplicemente fatto perdere le sue tracce.

E certo nessuno si poteva figurare gli occhi stupiti e inermi di quell'omino spaurito, dentro il camioncino della polizia, che lasciava la fattoria di Balaški. C'era Frida che faceva capolino dalla stalla. E poi tutta la banda di Sofja la Terribile sulla strada sterrata a sventolare fazzoletti e ad augurargli un veloce ritorno. D’altronde erano abituati a quel tipo di cerimonia di saluto: era già il terzo proprietario di quella fattoria ad esser messo dentro per lo stesso tipo di reato. Nessuno però della polizia lèttone in fondo se la sentiva di sequestrare o peggio ancora distruggere quella meraviglia di alambicco artigianale.
Durante il viaggio per la prigione di Daugavpils, nella camionetta, coi ceppi ai polsi, gli prese una grande nostalgia per la sua fattoria, per Martinš e le loro lunghe chiacchierate, per le urla possenti di Sofja Ivanovna, e persino per i capezzoli di Frida. Cercò di immaginare, secondo la sua esperienza legale, quanto tempo avrebbe passato in prigione per quel reato, e quanto sarebbe potuta costare la cauzione. Avrebbe curato personalmente la propria difesa, senza precedenti penali sperava di cavarsela con poco, in fondo. Gli spuntò sulle labbra un sorriso improvviso. No, non sarebbe mancato all'appuntamento, la prossima estate, con quel tramonto di frammenti arancioni e fili d'inchiostro, di fronte al lago di Ardava. Sarebbe stato un peccato, ora che aveva finalmente imparato a guardarlo.


martedì 26 agosto 2008

Una corsa intorno al fuoco

(Un racconto di San Giovanni)

Nathan sbuffava, scalpitando contro le balle di fieno dentro la stalla. Sembrava sentisse che quella non era una giornata come le altre. Fin dall'alba Viktors era passato a spazzolarlo e a portargli acqua e mangime. Intanto il piccolo Arturs continuava a corrergli intorno come un matto, con l'eccitazione di un bambino di cinque anni di fronte alla prospettiva di una lunga cavalcata notturna con il padre.
Una fine di giugno che sgocciolava via in giornate di un caldo riposante e quieto. La festa di Jaņi giungeva attesa come sempre, solstizio d'estate che tutta la Lettonia si preparava a celebrare quella notte, infiammando di fuochi scoppiettanti le cataste di legno su cui si faceva cerchio, cantando fino all'alba. Le città si svuotavano e ogni fattoria, casolare, baracca di campagna si riempiva di famiglie riunite per l'occasione, a mangiare formaggio al cumino e bere birra. Le ragazze vestite di fiori, con il capo ornato da corone di piante intrecciate, gli uomini alle prese con i fuochi rituali.
Notte magica, il 24 giugno, notte di euforia pagana, notte di un buio breve, di tramonto e alba che si congiungono in un abbraccio cantato.

Viktors finalmente portò fuori Nathan, lo attaccò al carro, e montò a cassetta per guidarlo verso l'uscita del recinto. Arturs corse fuori di casa poi, raggiunto il carro, con un balzo saltò sopra, sistemandosi a sedere accanto al padre.
Li accompagnava, lungo il sentiero che costeggiava il fiume, un vento tiepido, mentre i raggi del sole sfrigolavano via piano, cedendo il posto ad un alone di luce diffusa e insistente. Passarono accanto al casolare di Valters, quindi oltrepassarono la fattoria delle sorelle Liepina. Arturs fece in tempo a sporsi indietro con la testa, per salutare, orgoglioso, Ilze, con cui spesso giocava in riva al fiume. Presero quindi la strada che conduceva verso le grandi pianure.

Il primo fuoco che incontrarono fu nei dintorni di Auri. Si scorgeva il fumo salire dal fianco di una piccola collinetta. Si inoltrarono dentro un boschetto di betulle, dove Viktors ebbe un bel daffare per tenere Nathan e il carretto sullo stretto sentiero che era tracciato in mezzo ai lisci fusti biancheggianti. La luce bassa dei raggi filtrava a intermittenza, mantenendo però un alone cangiante al di sopra degli alberi. Infine quei raggi saltellanti si sciolsero in una pozza di languido chiarore appena il carro uscì nella radura che si apriva su un lago. Padre e figlio ne approfittarono per scendere dal carro. Arturs si gettò correndo verso quello specchio immobile. Con l'acqua fino alle caviglie cercava di raccogliere gli arbusti e le canne che emergevano da quello spicchio di lago.
"Ci siamo dimenticati delle canne, papà! Ne prendiamo qualcuna qui?"
"D'accordo. Ma vedi di non finire dentro qualche buca profonda".

Era impossibile calcolare che ora fosse. Ma quella sera lunghissima e lucente dava il tempo e i rintocchi all'uomo con un battito di secondi tutto suo. Nessun orologio sarebbe stato in grado di calcolare quello scorrere delle ore. A Viktors pareva che fosse un tempo infinito e immobile.
Si appoggiò ad un tronco abbattuto, di fronte alla riva terrosa del lago e aspettò che suo figlio terminasse la sua raccolta. Lo osservava con quello sguardo stupito e fiero, che non riusciva più a togliersi dal viso. Da quando erano rimasti soli.
Non era sempre facile fra loro. Custodivano sentimenti segreti, di cui non riuscivano a parlare. Quando c'era sua madre, era lei che sapeva parlargli, con espressioni di una disarmante semplicità. Sembrava tutto facile. Viktors invece finiva col trasformare ogni dialogo con il figlio in una baruffa di giochi e corse che eccitavano il piccolo Arturs, ma poi lasciavano un affannoso respiro corto, privo di parole che spiegassero. Privo di una reale comunicazione.
E ora c'era quel grumo fresco di indicibile dolore, che loro non riuscivano a condividere se non in un silenzio gravido di sguardi e sottintesi. Erano ombre di parole che faticavano a farsi strada, e che neppure le corse a perdifiato e le lotte giocose e furibonde sapevano sciogliere in un luce di sincerità.

Tutta Zemgale mandava profumi di gelsomino quella sera. Ciocchi di terra grassa sbollivano umori tiepidi sotto gli zoccoli di Nathan. Sembrava che la natura quel giorno fermentasse tutta, in un bolla di vapore denso di aromi e colori.
Quando raggiunsero la fattoria di Milda e Edmunds li annunciò un concerto festoso di grilli dai fossi ai lati della strada sterrata. Arturs saltò fuori all'imbocco del vialetto e corse incontro alla vecchia balia che li attendeva sull'aia. Edmunds in piedi sulla soglia di casa annuì con un ciondolio lento del capo.
"Sei sempre il solito, Viktors! Perchè non ci hai avvertito che arrivavi" lo sgridò Milda.
"Scusaci, ma non avevamo una mèta precisa stasera. Abbiamo preso Nathan, attaccato il carretto e siamo partiti così, per fare un giro. Arturs ci teneva così tanto a guidare il calesse".
Edmunds servì kvass al piccolo, e aprì due birre. "Siediti Viktors, e non starla a sentire. Non aspettavamo nessuno, eppure lei ha riempito la dispensa con ogni tipo di formaggio e salame, pollo affumicato, piragi alla pancetta, e torta ai semi di papavero. E ancora teme che non ci sia abbastanza per dar da mangiare a due ospiti."
"Qui non viene quasi mai nessuno - proseguì Edmonds. Karlis e Inga non si fanno mai vedere. Non ci siete rimasti che voi, che ogni tanto fate capolino".
Arturs si gettò a capofitto sui piragi e sulla torta ai semi di papavero e si scolò in un baleno il bicchiere di kvass.

Edmunds e Vicktors si incamminarono verso la faggeta che delimitava la tenuta della fattoria. Il vecchio si sedette sotto la quercia vecchia e arrotolò una sigaretta.
"Allora, hai deciso cosa fare con tuo figlio? Lo porterai a Riga a studiare? Lo capisco sai, quella fattoria ormai, che ci fate voi due da soli.. Qui non c'è nient'altro che campi, e fatica. E bestie da tirar su."
"Non so dirti Edmunds. C'è questa estate qui davanti, speravo mi segnasse una strada da fare. Eppure stasera ci è presa una voglia impellente di montare il calesse e fare il giro dei falò qui intorno. Arturs è una trottola, non riesce più a fermarsi un attimo, da quel giorno. Mi sembra abbia bisogno di respirare quest'aria libera, questo paesaggio di orizzonti. E' una cosa strana, sai. Ma restare qui, ci dà l'illusione che lei sia ancora vicina a noi. E' una sensazione che ci fa un male assurdo, ma di cui non sappiamo fare a meno. Io lo so che ce ne dovremmo andare, che non dovrei legare Arturs a questo cappio di ricordi. Ma dimmi tu, che ce ne facciamo di una vita qualsiasi a Riga? Diventeremmo altri due alberelli tristi di città, in attesa di scappare ogni giorno di festa per queste campagne. Lei ci chiamerebbe comunque."

Fecero anche loro un fuoco, infine. Arturs mise le stoppie e le fascine ed Edmunds gli fece accendere la grande pila.
Milda si mise a cantare sottovoce una canzone di Ligo. Si sentiva un sottofondo frusciante di sterpi che bruciavano, e quella lenta melodia incantata.
Arturs correva intorno al fuoco, allargando le braccia come un airone in volo. Infine si posò a terra, esausto. Viktors lo prese in collo, se lo adagiò sopra le gambe, e lo osservò mentre si addormentava. Questo non finiva di esser bello.