Bussarono con violenza alla porta. Il professor Lotman si scosse, mentre chino sul suo ultimo trattato di semiotica stava riscrivendo alcuni passaggi.
Zara Grigor'evna era in camera da letto, nel suo studio, intenta a correggere i compiti dei propri allievi. Si guardarono in tralice, due sguardi sospesi e interrogativi che attraversavano lo stretto, buio corridoio.
Non si bussa in quel modo, in una tarda serata di un giorno qualsiasi, nella Tartu sovietica dei primi anni sessanta, senza destare in chi ascolta quel battere violento una paura sorda e inesplicabile.
E nella testa del professor Lotman, insigne universitario esponente della famosa scuola strutturalista di Tartu, si fecero strada i più diversi pensieri. Ogni cellula nervosa del suo cervello fu attraversata da un circuito elettrico, che scavava a fondo nei recessi angoli della memoria, alla ricerca di un qualsiasi pretesto, di ogni infimo episodio del suo passato, che spiegasse quei colpi alla porta, quell'improvviso arrestarsi della vita quotidiana.
Era stato un ottimo studente. La guerra aveva interrotto i suoi studi mentre era una matricola all'Università di Leningrado, per scaraventarlo al fronte. L'Ucraina, gli accerchiamenti, la ritirata sul Don, la controffensiva, e poi la lunga marcia verso la Polonia, il Baltico, infine la Germania. Era telefonista, il suo compito era ricollegare le linee telefoniche interrotte lungo il fronte. Quando tornò alla vita civile e agli studi all'Università di Leningrado ebbe bisogno del suo profilo personale con gli encomi di guerra per cercare un lavoro, gli fu risposto che il suo profilo era andato perso. Era il prezzo da pagare per essere ebreo, nella Russia in cui stava iniziando l'ultima violenta campagna antisemita staliniana. Non lo immaginava.
Riuscì infine a trovare un posto di lavoro all'Università di Tartu, in Estonia. Un esilio volontario ai margini dell'Impero, per sfuggire alle persecuzioni antisemite dei primi anni cinquanta nell'Urss di Stalin.
Intanto, di nuovo quei colpi violenti alla porta.
Quasi un sapore di sangue nella bocca. E i pensieri che annaspano, vorticosamente, a ricordare, a immaginare, a domandarsi. Solo poche notti prima, era seduto nella stessa sedia, i gomiti appoggiati al tavolo della cucina, ad aspettare una visita. Giusto adesso gli veniva in mente. Attendeva un suo studente. Il suo migliore studente.
Un giovane strano, per la verità, ma geniale. Prometteva davvero bene, non fosse stato per quel suo maledetto vizio. Lotman e sua moglie gli avevano offerto delle credenziali per un lavoro di ricerca sugli scritti di Bulgakov, e il giovane si era presentato a casa della vedova di Bulgakov, Elena Sergeevna. A casa Bulgakov gli fu permesso persino di leggere alcune pagine dal manoscritto originale di "Il maestro e Margherita". Solo che nei giorni seguenti, sorprendentemente, quel manoscritto si aggirava fra le mani dello studente per i corridoi e le aule della facoltà di Lettere di Tartu. Il ragazzo sosteneva di averlo ricevuto dalle mani di Elena Sergeevna.
Peccato per quel suo maledetto vizio, che rendeva la cosa davvero poco credile. Il miglior studente del professor Lotman era un cleptomane.
Il professore cercò di mettersi in contatto con Elena Sergeevna, che da qualche giorno era in grande ansia per la scomparsa del manoscritto. La vedova di Bulgakov temeva soprattutto che, se il manoscritto era stato rubato, il ladro potesse in qualche modo farlo passare in occidente. Se "Il maestro e Margherita" fosse stato pubblicato fuori dall'Urss, sarebbero svanite le pur vaghe speranze di pubblicazione in patria. Proprio in quei giorni Kostantin Simonov, presidente dell'Unione degli Scrittori, aveva intrapreso qualche trattativa con la vedova Bulgakov per un'eventuale pubblicazione, barattandola con vari tagli dell'opera.
"Quel leccapiedi di Simonov - pensò Lotman - cerca di rifarsi una verginità morale dopo essere stato un eroe della letteratura stalinista. Ma tant'è, se questo può servire per pubblicare l'opera di Michail Afanas'evic".
Così Lotman un giorno prese coraggio e andò a trovare il suo studente. In camera sua scoprì molti libri che erano misteriosamente scomparsi dalla biblioteca dell'Università. Lotman montò su tutte le furie: "Non voglio ridurmi a perquisire la sua stanza, ma le ordino di restituire immediatamente il manoscritto di Bulgakov alla legittima proprietaria! Entro stasera la attendo a casa mia con il manoscritto, mascalzone!".
Fu una lunga, pallida notte di attesa. Alle due, il professor Lotman dalla cucina sentì un leggero scalpiccio dietro la porta di casa, seguito dal frusciare di una lettera che oltrepassava la fessura fra la porta e la soglia. Aprì la lettera e lesse. Un foglio farneticante, sembrava uscito dalla penna di una creatura dostoevskiana, un misto fra Svidrigajlov e Marmedalov, questa fu l'impressione del professor Lotman. Nella lettera comunque si precisava che il manoscritto era stato appena spedito alla vedova di Bulgakov.
Altri due colpi furenti alla porta.
Lotman sobbalzò, i pensieri e i ricordi che si affannavano nella sua mente svanirono come in una bolla di sapone. Si ritrovò infine in piedi in mezzo alla cucina. Si diresse verso il suo destino e strinse nel pugno la fredda maniglia dell'uscio di casa.
Come aprì gli si avventò sopra un uomo robusto e deciso, che sembrava avere una gran voglia di prenderlo a pugni. Lotman indietreggiò per alcuni passi, e non appena ebbe il coraggio di alzare il viso e guardare in faccia l'uomo, lo riconobbe. Era Solženicyn, che veniva appunto a reclamare il manoscritto da parte di Elena Sergeevna.
Il professor Lotman riuscì a chiarire la faccenda prima che il pugno di Solženicyn calasse sul suo viso. Finirono per fare amicizia, tanto che passarono la giornata seguente a discutere di "Una giornata di Ivan Denisovič", che era stato pubblicato da poco e già era valso una grande fama a Solženicyn.
Il manoscritto di Bulgakov rientrò in possesso di Elena Sergeevna, anche se non senza rischio che fosse perduto per sempre, dato che lo studente incosciente non lo aveva spedito per raccomandata, e a quel tempo la posta non raccomandata finiva molto spesso in tutt'altre mani che quelle del destinatario.
Pessima fine toccò invece allo studente cleptomane. La sua bravata gli costò il posto di dottorato, che sarebbe stato suo di diritto per le capacità che aveva. Lo spedirono invece in una scuola di periferia, dove si perse del tutto e morì alcolizzato pochi anni dopo.
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Racconto liberamente tratto dalla raccolta di appunti autobiografici di Jurij Michailovič Lotman "Non memorie".
mercoledì 21 ottobre 2009
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