mercoledì 11 novembre 2009

Il giorno di San Martino

Mi piace tornare dai miei in questo giorno dell'anno. Scendo dalla corriera qualche fermata prima e faccio a piedi una decina di chilometri fino alla nostra fattoria.
Mi mancano queste lunghe passeggiate da quando vivo a Riga. E poi mi piace l'odore umido e penetrante della terra di novembre. Costeggio i campi di segale e di grano, con le stoppie ormai appassite e i solchi fumiganti di terra ghiacciata, attraverso il bosco di Tervete, accarezzo i pallidi fusti delle betulle, annuso l'odore aspro del sottobosco acquoso. Ripercorro i sentieri della mie scorribande giovanili in cerca di funghi e mirtilli.
Quando esco dal bosco mi si para di fronte, in una lontananza azzurrognola, il fumo del camino della fattoria. Mia madre sta già cuocendo l'oca. Attraverso il pascolo, ascolto i rumori soffocati della stalla, certamente ormai piena di fieno per tutto l'inverno. Mio fratello mi vede, lascia le assi con cui sta rinforzando il tetto del granaio e salta giù per venirmi incontro. I suoi lunghi passi, decisi e forti, mi accompagnano a casa. Il suo abbraccio, breve e duro, mi racconta dei giorni passati senza vederci.
Dentro casa la luce di una lampadina fioca e gli sprazzi del fuoco che arde riverberano sulle pareti di legno un colore ambrato scuro che sa di buono e di caldo. Come di cose che non ci sono più.
Mia madre alza il capo dal fuoco e mi fa cenno di sedere a tavola. Mi sorride piano, senza una parola. Su un vassoio di legno riposano delle focaccine al miele e un tortino di carote.
Mi tolgo il cappotto e distendo le gambe sotto il tavolo. Me ne sto in silenzio. Succede sempre così, i primi minuti delle mie scarse visite a casa. Mi concedono il tempo del ritorno, mi riconsegnano i suoni e gli odori dell'infanzia. Nudi e senza gli orpelli di una conversazione.
Ed è così che io ritorno fra loro.
Poi il silenzio si rompe dalla porta d'ingresso. Mio padre entra come un tuono, con la selvaggina in mano e il fucile appoggiato alla spalla. Mio fratello versa due dita di vodka nei bicchieri. Ci sarà da bere e da mangiare fino a tarda sera. Mi chiederanno di Indra, lo so, e del perché non è venuta. E se sono davvero felice. Ed io resterò in attesa della notte, perché tornino quei rumori incerti e lontani dal bosco, e la penombra coi tizzoni accesi mi restituisca le stagioni passate, la mia infanzia, quei colori scuri alle pareti dove danzavano le ombre dei mie sogni.

mercoledì 21 ottobre 2009

Due colpi alla porta

Bussarono con violenza alla porta. Il professor Lotman si scosse, mentre chino sul suo ultimo trattato di semiotica stava riscrivendo alcuni passaggi.
Zara Grigor'evna era in camera da letto, nel suo studio, intenta a correggere i compiti dei propri allievi. Si guardarono in tralice, due sguardi sospesi e interrogativi che attraversavano lo stretto, buio corridoio.
Non si bussa in quel modo, in una tarda serata di un giorno qualsiasi, nella Tartu sovietica dei primi anni sessanta, senza destare in chi ascolta quel battere violento una paura sorda e inesplicabile.
E nella testa del professor Lotman, insigne universitario esponente della famosa scuola strutturalista di Tartu, si fecero strada i più diversi pensieri. Ogni cellula nervosa del suo cervello fu attraversata da un circuito elettrico, che scavava a fondo nei recessi angoli della memoria, alla ricerca di un qualsiasi pretesto, di ogni infimo episodio del suo passato, che spiegasse quei colpi alla porta, quell'improvviso arrestarsi della vita quotidiana.
Era stato un ottimo studente. La guerra aveva interrotto i suoi studi mentre era una matricola all'Università di Leningrado, per scaraventarlo al fronte. L'Ucraina, gli accerchiamenti, la ritirata sul Don, la controffensiva, e poi la lunga marcia verso la Polonia, il Baltico, infine la Germania. Era telefonista, il suo compito era ricollegare le linee telefoniche interrotte lungo il fronte. Quando tornò alla vita civile e agli studi all'Università di Leningrado ebbe bisogno del suo profilo personale con gli encomi di guerra per cercare un lavoro, gli fu risposto che il suo profilo era andato perso. Era il prezzo da pagare per essere ebreo, nella Russia in cui stava iniziando l'ultima violenta campagna antisemita staliniana. Non lo immaginava.
Riuscì infine a trovare un posto di lavoro all'Università di Tartu, in Estonia. Un esilio volontario ai margini dell'Impero, per sfuggire alle persecuzioni antisemite dei primi anni cinquanta nell'Urss di Stalin.
Intanto, di nuovo quei colpi violenti alla porta.
Quasi un sapore di sangue nella bocca. E i pensieri che annaspano, vorticosamente, a ricordare, a immaginare, a domandarsi. Solo poche notti prima, era seduto nella stessa sedia, i gomiti appoggiati al tavolo della cucina, ad aspettare una visita. Giusto adesso gli veniva in mente. Attendeva un suo studente. Il suo migliore studente.
Un giovane strano, per la verità, ma geniale. Prometteva davvero bene, non fosse stato per quel suo maledetto vizio. Lotman e sua moglie gli avevano offerto delle credenziali per un lavoro di ricerca sugli scritti di Bulgakov, e il giovane si era presentato a casa della vedova di Bulgakov, Elena Sergeevna. A casa Bulgakov gli fu permesso persino di leggere alcune pagine dal manoscritto originale di "Il maestro e Margherita". Solo che nei giorni seguenti, sorprendentemente, quel manoscritto si aggirava fra le mani dello studente per i corridoi e le aule della facoltà di Lettere di Tartu. Il ragazzo sosteneva di averlo ricevuto dalle mani di Elena Sergeevna.
Peccato per quel suo maledetto vizio, che rendeva la cosa davvero poco credile. Il miglior studente del professor Lotman era un cleptomane.
Il professore cercò di mettersi in contatto con Elena Sergeevna, che da qualche giorno era in grande ansia per la scomparsa del manoscritto. La vedova di Bulgakov temeva soprattutto che, se il manoscritto era stato rubato, il ladro potesse in qualche modo farlo passare in occidente. Se "Il maestro e Margherita" fosse stato pubblicato fuori dall'Urss, sarebbero svanite le pur vaghe speranze di pubblicazione in patria. Proprio in quei giorni Kostantin Simonov, presidente dell'Unione degli Scrittori, aveva intrapreso qualche trattativa con la vedova Bulgakov per un'eventuale pubblicazione, barattandola con vari tagli dell'opera.
"Quel leccapiedi di Simonov - pensò Lotman - cerca di rifarsi una verginità morale dopo essere stato un eroe della letteratura stalinista. Ma tant'è, se questo può servire per pubblicare l'opera di Michail Afanas'evic".
Così Lotman un giorno prese coraggio e andò a trovare il suo studente. In camera sua scoprì molti libri che erano misteriosamente scomparsi dalla biblioteca dell'Università. Lotman montò su tutte le furie: "Non voglio ridurmi a perquisire la sua stanza, ma le ordino di restituire immediatamente il manoscritto di Bulgakov alla legittima proprietaria! Entro stasera la attendo a casa mia con il manoscritto, mascalzone!".
Fu una lunga, pallida notte di attesa. Alle due, il professor Lotman dalla cucina sentì un leggero scalpiccio dietro la porta di casa, seguito dal frusciare di una lettera che oltrepassava la fessura fra la porta e la soglia. Aprì la lettera e lesse. Un foglio farneticante, sembrava uscito dalla penna di una creatura dostoevskiana, un misto fra Svidrigajlov e Marmedalov, questa fu l'impressione del professor Lotman. Nella lettera comunque si precisava che il manoscritto era stato appena spedito alla vedova di Bulgakov.
Altri due colpi furenti alla porta.
Lotman sobbalzò, i pensieri e i ricordi che si affannavano nella sua mente svanirono come in una bolla di sapone. Si ritrovò infine in piedi in mezzo alla cucina. Si diresse verso il suo destino e strinse nel pugno la fredda maniglia dell'uscio di casa.
Come aprì gli si avventò sopra un uomo robusto e deciso, che sembrava avere una gran voglia di prenderlo a pugni. Lotman indietreggiò per alcuni passi, e non appena ebbe il coraggio di alzare il viso e guardare in faccia l'uomo, lo riconobbe. Era Solženicyn, che veniva appunto a reclamare il manoscritto da parte di Elena Sergeevna.
Il professor Lotman riuscì a chiarire la faccenda prima che il pugno di Solženicyn calasse sul suo viso. Finirono per fare amicizia, tanto che passarono la giornata seguente a discutere di "Una giornata di Ivan Denisovič", che era stato pubblicato da poco e già era valso una grande fama a Solženicyn.
Il manoscritto di Bulgakov rientrò in possesso di Elena Sergeevna, anche se non senza rischio che fosse perduto per sempre, dato che lo studente incosciente non lo aveva spedito per raccomandata, e a quel tempo la posta non raccomandata finiva molto spesso in tutt'altre mani che quelle del destinatario.
Pessima fine toccò invece allo studente cleptomane. La sua bravata gli costò il posto di dottorato, che sarebbe stato suo di diritto per le capacità che aveva. Lo spedirono invece in una scuola di periferia, dove si perse del tutto e morì alcolizzato pochi anni dopo.
:
Racconto liberamente tratto dalla raccolta di appunti autobiografici di Jurij Michailovič Lotman "Non memorie".

venerdì 20 marzo 2009

Erba medica

Erba medica. 
Disse così Grigorij. Semplicemente. 
Il principe L'vov pareva perplesso, mentre il contadino stendeva il braccio come a coprire quella distesa di campi di segale. 
Erba medica, ripetè. Poi si girò e prese quietamente la via di casa. Fino a Jasnaja Poljana c'erano quattro chilometri e Grigorij se li fece con una lentezza disperante. Come si confaceva a lui, e ai suoi pensieri. 
Il principe restò su quel ciglio di terra, ad osservare il panorama dei suoi campi.
Pietroburgo scoloriva ormai sul bordo di un ricordo passato. Il palazzo nel centro della capitale, i ricevimenti, le corse all'ippodromo, i pranzi da Stolypin. E poi la vendita delle tenute di Černigov e Kostroma, l'appartamento di Mosca. La fabbrica di birra di Brjansk, perduta anche quella. 
Ora c'era soltanto questo mare biondo di segale e la fattoria di Popovka. L'ultima cosa da salvare. L'origine della famiglia, il cuore stesso, la radice delle loro esistenze. 
Non c'era altro. Niente più servi, niente più anime da contare. 
Erba medica aveva detto Grigorij. Un contadino, s'intende. Cambiare tutto. Lasciarsi alle spalle la vita a corte, e rimboccarsi le maniche. Questo l'aveva capito. Chissà se l'avrebbe capito anche Sonja. 
Era il 1886. Aveva appena 25 anni. E l'ultima cosa che gli rimaneva era la terra, era il tentativo di far crescere di nuovo qualcosa di concreto, di tangibile. Qualcosa che avesse un seme di vita al suo interno. 
Erba medica, diceva Grigorij. Da far seccare e stipare nei magazzini per poi venderla al mercato di Tula. Sarebbe servita anche a ridare ossigeno ai terreni. Si, era quello che ci voleva. Rimettere le mani dentro la terra e riempire i polmoni di quell'aria asciutta e lieve. Imparare a nutrirsi di zuppa di cavoli e kaša. Bere il tè dal samovar che Ljubka teneva sempre bollente nelle sere cullate dall'Onegin. Ascoltare le bilyne raccontate dal vecchio Vasilij, e le storie sullo starec Makarij. E ogni tanto andare a trovare il vecchio Lev, a Jasnaja Poljana. Far crescere in questo modo i suoi figli. 
Era sempre stato così del resto, fin dai tempi dei tempi. Fin da quando il suo antenato Rjurik aveva creato questo immenso paese. E poi affacciarsi con Sonja in veranda, nell'orlo di quei tramonti che arrossavano l'orizzonte, mentre gli ultimi carri dei fattori colmi di grano saraceno passano sulla strada per Mosca. Questo poteva davvero bastare.

mercoledì 4 febbraio 2009

Indizi di una vita

C’era una neve sottile e imperterrita, quella mattina. Un vento opaco spazzava la strada che dall’ufficio postale conduceva verso la campagna. Salì il sentiero che portava a casa, accostò il cancello di ferro battuto. Posò il pacco sul tavolo, aprì la credenza per prendere una tazza e mise l’acqua a bollire.
Aveva prolungato l’attesa di aprire l’involucro, per quella sorta di sottile piacere che, un tempo, gli dava la vigilia di ogni suo incontro con Nina. Teneva in bocca quei minuti, quelle ore che preludevano ad ogni loro incontro, come un grumo di miele d’acacia che si scioglie in miriadi di piccoli cristalli pungenti.
Infine lo aprì, quel pacco. Tagliò la corda intorno alla cera lacca, strappò la carta, distese le mani a sgranare sul tavolo tutto il contenuto di quel dono inimmaginato. C'erano foto scattate in anni diversi e un piccolo ritratto di donna, in ametista e ambra. Prese poi fra le mani un quaderno dalla copertina cerata, di colore nero.
Lo aprì. Gli sembrò di vedere delle date, e nomi di città, e molte pagine scritte fittamente, con una calligrafia dolce e affrettata.
Era il diario di una vita intera. Era il diario di Nina.



Tu non sai Nina, non sai le ore all’imbrunire, la malinconia delle sere vuote, le sedie da rimettere a posto in sala, le chiacchiere insensate, i pensieri nel vento. Da quando sei fuggita da questo paese in fiamme.
Tu non sai, Nina, la vita nella tua assenza.
Ora sei qui dopo tutti questi anni, in questo diario, quello che resta per me. Sei qui, come un’antica promessa d’amore, come un volo di gabbiano all’ultimo calar del sole. Sei qui ed io non ho forze per accoglierti come si deve, sfogliare questa risposta ad una vita di attesa, quasi un temporale di fine estate che si porta via gli ultimi fiati di sole dai campi seminati a grano.




Si prese il tempo del lungo inverno.
Non era una vita che potesse leggere nello spazio angusto di un giorno qualsiasi. Aveva bisogno di silenzi puri, e di lunghe ore intatte di pensieri. Si faceva accompagnare dal crepitio del fuoco la sera, mentre fuori era un garbuglio di stelle. Altre volte sceglieva albe terse e bianche, prendeva gli sci e se ne andava per il bosco innevato di fresco. Cercava poi crinali esposti al sole incostante di quell'inverno, per sedersi a leggere quelle pagine traboccanti. Di fronte mute distese di neve, come lenzuoli abbaglianti di candida mussola.
Conobbe con gli occhi di Nina la Parigi degli anni trenta, le gite sulla Senna nelle domeniche d'estate, il mondo russo dell'emigrazione che lentamente si disfaceva in mille piccoli rivoli, l'invasione tedesca, i tempi feroci e affamati della guerra, i nascondigli tremanti, le lunghe notti febbrili, la fuga nella campagna bretone. Condivise con lei le lacrime e i timori, le gioie nascoste e le fughe improvvise, serrò i pugni impotenti, le accarezzò i capelli e la strinse a sè nei suoi pensieri attoniti.
Chiuse infine quel diario che era giunta primavera. Una giornata limpida e pungente, che lo sorprese incastrato in maldestri, confusi battiti del cuore