Il fruscìo ovattato del contatto elettrico del filobus numero 14 attraversava l'aria umida e nebbiosa del quartiere di Purvciems. Una notte acquosa e dal sapore di piombo.
Pёtr Vasil'ič Dolkin uscì dal portone del suo palazzo a due piani, che l'orologio della stazione di smistamento dei tramvai segnava le due. Lo prendeva l'insonnia, da oltre dieci anni, da quando aveva creato il suo piccolo impero di immobili. Erano le preoccupazioni, l'angoscia per gli affari, l'avidità che gli attanagliava la gola e lo strozzava già al primo sonno. Tornava dal lavoro a sera inoltrata, mangiava svelto la kaša che gli aveva preparato Sonja, e dopo il notiziario in lingua russa delle dieci si infilava a letto. Poi un senso di soffocamento lo risvegliava di colpo. Si alzava silenziosamente per non svegliare sua moglie Vera, si vestiva di tutto punto e usciva. Ogni notte.
Il cielo di Riga era nero, lucido e compatto. Sembrava avesse smesso di piovere, così quella notte Piotr Vasil'ič strinse l'ombrello sotto il braccio, impugnò deciso il bastone e s'incamminò per il lungo viale che conduceva al canale. Il suo passo era breve e deciso, il bastone lo teneva più per figura. L'unico vezzo che si conoscesse a quell'uomo di mezza età grassoccio e dal colorito paonazzo, che possedeva palazzi in tutto il Baltico e nella regione di Pskov, ma che non aveva rinunciato ad abitare nel quartiere operaio dove viveva quando era un anonimo funzionario di un azienda statale sovietica che produceva materiali elettrici. Un grigio quadro intermedio, e tale era rimasto nel suo tenore di vita anche oggi che deteneva una fortuna.
Giunto nei pressi del canale scese per la piccola scaletta che dava sul camminamento. Apri la porta del locale e sentì il suono metallico dei giochi automatici nella saletta accanto alla sala del caffè. Il vecchio Grigorij gli venne incontro uscendo da dietro il bancone e si affrettò a prendergli cappotto, bastone e cappello.
"Salve Pёtr Vasil'ič, che notte impossibile eh!"
"Eh Griška, sono tutte uguali le notti. Tutte impossibili."
"Volete un bicchierino prima di andare? Ho già preparato tutto."
"No vecchio mio, niente bicchierino, ho lo stomaco in fiamme. Andiamo."
Presero lo stretto corridoio interno che dava direttamente sul canale, da cui saliva una nebbiolina fredda. Il vecchio mužik strascicava il passo rumorosamente sul pavimento di legno e ansimando raggiunse la porta della casetta numero 36. Aprì e si spostò per far entrare il suo illustre cliente. Il caldo soffocante investi in faccia Piotr Vasil'ič che si richiuse la porta alle spalle e restò solo nella minuscola anticamera. Si spogliò, appese i vestiti alla parete ed entrò nella stanza dove in una stufa sfrigolavano sotto una cenere iridescente i resti di alcuni ceppi di faggio. Il termometro della sauna segnava gli ottanta gradi. Dolkin si sedette sulla panca accanto alla stufa, prese dal secchio un mestolo d'acqua e lo versò sui sassi roventi posati sopra la stufa. Una potente nuvola di vapore caldo si alzò dalle pietre e lui ci immerse il volto che arrossì e comiciò a lacrimare. Poi prese un ramo di betulla e cominciò a battersi vigorosamente le spalle e la schiena.
Di ritorno dalla sauna Dolkin si sedette al tavolino dove il vecchio Griska gli aveva versato il tè di tiglio, che fumava attraverso un piccolo spiraglio sotto al piattino che copriva la tazza, e alcuni zakuski ai semi di papavero. Dolkin esausto per la sauna sorseggiò un po' di tè e addento un pasticcino.
Griska gli si accomodò in una sedia accanto.
"Sapete Pёtr Vasil'ič di quel tale - cominciò a raccontare il vecchio facendoglisi vicino - che cercava di vendere il suo pappagallo?"
"Racconta Griška!" fece Dolkin.
"Vedete, oggi i tempi sono diversi, si mangia in abbondanza, c'è lusso dovunque, i giovani soprattutto non ci fanno più neanche caso. Ma i giorni successivi alla rivoluzione, quelli erano terribili, sul serio. Le città non avevano di che mangiare, e si vendevano tutto alle campagne. Se uno andava in giro per le case dei contadini, ci poteva trovare ogni ben di Dio, cassapanche come nuove, specchi che sembravano appena usciti dalla vetreria, orologi a cucù, attaccapanni di bronzo. I cittadini si vendevano qualsiasi cosa per avere un sacco di farina, qualche uova, un po' di patate. Un tizio che viveva in città aveva una moglie a cui era venuta l'uggiola di pane con il lardo."
"Ih, pane col lardo - sogghignò Dolkin. Anche a quei tempi le mogli ne avevano di voglie..."
"E questa, Pёtr Vasil'ič, doveva essere una di quelle che non ne lasciavan persa una. E così spinse suo marito a prendere il suo pappagallo e a portarlo in campagna, per venderlo a qualche contadino. Sapete come va con certe donne, non le sposti da un'impuntatura neanche con sei cavalli da tiro."
"Lo so, vecchio mio, eccome se lo so! Va' avanti."
"Dunque quel tizio ci andò in campagna. Il pappagallo era proprio bello, rosso e verde, come nelle stampe. Ma non si comportava come quei pappagalli allevati da qualche comune cittadino russo, che imparano a dire solo "stupido". No, quello veniva dalla collezione di animali esotici di una contessa che era deportata e doveva vendere i suoi beni per strada prima che la portassero via. E quel pappagallo non faceva che ripetere "charmant". Insomma, fu un bell'affare per quel tipo, che lo acquistò per pochi copechi ed era sicuro che avrebbe fatto un grande effetto fra i contadini nelle campagne."
"Già, voglio proprio vedere il contadino che a quei tempi si comprava un pappagallo" commentò Dolkin.
"Beh uno lo trovò proprio all'inizio del suo viaggio - continuò Griška - ma per il pappagallo offriva solo un sacchetto di grano, e lui rifiutò. Come faceva a tornare dalla moglie con un sacchetto di grano se lei pretendeva pane e lardo."
"Dio ci scampi!" fece Dolkin.
"Del resto quel tizio era sicuro di vendere il pappagallo per molto di più. E in effetti nei villaggi dove si recava tutti si interessavano al pappagallo. I bambini, vi potete immaginare in quegli anni dei bambini di campagna alla vista di un pappagallo, impazzivano, lo stuzzicavano con i bastoncini, gli scompigliavano le piume. Ad un certo punto, in un villaggio oltre il Volga, una vecchia contadina stava per comprarlo per un bel po' di farina, ma un soldato si volle mettere in mezzo e la sconsigliò. Gli disse che un pappagallo che non diceva "stupido", ma solo una incomprensibile parola francese, era di certo un pappagallo falso. Così l'affare andò a monte."
Dolkin seguiva il racconto compiaciuto, mentre mangiucchiava i pasticcini.
"Il tizio - prosegui il vecchio Griška - continuò a portare in giro il pappagallo, che però era stravolto, tutto arruffato, e aveva persino smesso di mangiare. Quando alla fine trovò un contadino interessato a comprarlo e sollevò il panno con cui teneva coperta la gabbia per mostrarglielo, si accorse che il pappagallo giaceva sul fondo con le zampe per aria. Si può immaginare il suo sconforto! Allora il contadino mosso a compassione si offrì di comprargli almeno la gabbia, che a prezzo di mercato a quei tempi valeva sei uova. E fu davvero un peccato perché quel contadino era un appassionato di pappagalli, e sarebbe stato disposto a comprarglielo per quattro sacchi di farina, malgrado lo "charmant". Sapete a quei tempi quanto di quel lardo ci si poteva comprare con quattro sacchi di farina?"
"Eh, così va la vita - fece Dolkin. A volte è una questione di tempo e di fortuna. Ma ora forza, lasciami indovinare: Babel’?"
"No" rispose Grigorij.
"Allora Pil'njak!"
"No, nemmeno Pil'njak".
"Allora dunque, dimmelo tu - disse Dolkin. Hai vinto una mancia supplementare anche stanotte."
Il vecchio Griska accennò una sorriso: "Zoščenko."
"Certo, lo dovevo immaginare! Solo Zoščenko poteva scrivere una storia così! Però, vecchio mio, se ti fossi messo a narrare un racconto di Zoščenko, in quegli anni là, avresti fatto una brutta fine. Tieni e fatti una bevuta" gli disse infine Dolkin allungandogli un biglietto da dieci lats, cinque per la storia, e altri cinque per non aver indovinato l'autore.
Uscì dal locale che stava quasi albeggiando. Il cielo scuro di Purvciems mandava brevi bagliori d'aurora fra le nuvole plumbee.
Il vecchio Grigorij osservava dalla piccola finestra accanto al bancone del bar il suo benefattore allontanarsi. Era già da cinque anni che immancabilmente Dolkin passava tutte le notti alla sauna e lasciava una buona mancia al vecchio per le storie che ogni volta, dopo la sauna, Grigorij gli raccontava.
Gli piaceva che durante le sue notti insonni, il vecchio lo conducesse attraverso le storie di Puskin, di Bunin, di Afanas'ev, di Babel' o delle vecchie byline.
E sulle guance cadenti e ispide di rada barba bianca di Grigorij si allungò un amaro sorriso, al pensiero dei suoi anni siberiani, quando nel lager si guadagnava un giorno di vita per volta raccontando ai criminali comuni i romanzi dell'ottocento. Lo tenevano al caldo, gli davano da mangiare, lo proteggevano solo per le storie che sapeva raccontare.
E pure adesso che era vecchio doveva un pezzo del suo pane a quelle storie. Questo gli pareva perfino più strano.
mercoledì 29 settembre 2010
La sauna
lunedì 7 giugno 2010
Kaprinsky
Sullo specchio d'acqua batteva una finissima pioggia, fresca. Il vecchio non sembrava disturbarsene.
Dalla finestra di camera mia la figura dell'omino sotto la pioggia sapeva di ridicolo e triste, vi assicuro. Era senz'altro vecchio, piccolo e incurvato su un bastone nodoso, storto quanto lui. L'ombrello gli si parava sopra, ondeggiando alla volontà del vento, come un peso enorme per il braccio tremante che lo teneva. Infine scomparve sotto il pergolato della pensione.
Cercavo in quel luogo di villeggiatura per vecchi e piccoli borghesi di fine impero, i colori di una certa alba che aveva colto un giorno il mio poeta. Quello che studiavo da tre anni.
Cercavo quel tono d'alba rosa, i profumi del temporale nei boschi alpini di giugno, e le resine odorose delle abetaie.
Sul letto mi erano rimasti, sparpagliati in una confusa sommossa di fogli, i versi del poeta e le mie ricerche. Mentre la pioggia finissima si tramutava in un ultima agonia di temporale, finii preda nella piccola poltrona di un sonno profondissimo e senza pensieri.
Appena scesi lo vidi subito. Sedeva già, intento a mangiare quand'erano appena le sei di sera, al tavolino in un angolo del ristorante della pensione. La bombetta appoggiata al tavolo, accanto alla scodella con la zuppa di cipolle. Un canuto, piccolo vecchietto di fine secolo.
Quello che non mi aspettai, fu il sorriso buono con cui mi salutò. Era qualcosa di semplice e generoso. Come fosse un'abitudine.
La signora Meyer mi indicò il tavolo, che era proprio di fianco a quello del vecchio.
Si alzò: "La padrona le ha riservato un ottimo tavolo, ottimo per la verità! Ecco, mi presento, Victor Kaprinsky."
Io borbottai appena il mio nome, facendolo seguire da un "Piacere", mentre non so perché gli osservai le scarpe. Degnissime scarpe, di un cuoio nero e lucido come se ne vedono poche in giro dopo i temporali alpini di giugno. Se le era cambiate per scendere a tavola, naturalmente.
Cosa mai avrebbe voluto adesso, dopo le presentazioni? Intavolare una curiosa discussione sulla variabilità del tempo da queste parti, sulle amenità del luogo, o qualche sagace aneddoto sugli ospiti della pensione? O forse, dio ce ne scampi, sulla padrona e sulle modalità di assegnazione dei tavoli del ristorante?E invece, semplicemente, mi guardava. Aspirava la sua zuppa di cipolle. E poi, ad ogni immersione del cucchiaio nella scodella, mi guardava. Sembrava come soppesarmi, quasi volesse valutare se avevo i requisiti in regola per qualcosa che solo lui conosceva.Fu un buffo scherzo, rispondere ai suoi sguardi con altrettanti sguardi. Ma vinse lui, perché io mi stancai presto e poi mi servirono da mangiare."Lo sa cosa rende questo posto una meravigliosa mèta di villeggiatura?"
Questo lo disse dopo che aveva già finito da tempo la sua zuppa e il tortino di noci, mentre io ero appena alle prese con un cosciotto di agnello.
"Glielo posso senz'altro dire, giovanotto, io che frequento questo luogo da oltre trent'anni. E’ la cortesia, l'amabilità vorrei quasi dire, che contagia ogni persona, turista, villeggiante che sale per queste montagne per le vacanze estive. Un vero miracolo, se ne esce tutti migliori, mi creda, di come vi si è arrivati."
"Ah, ecco. Dunque c'è qualche speranza anche per me, immagino."
"Ma certo, giovanotto! Troverà in queste montagne, in quei colori che si rincorrono al sole dopo i temporali del primo pomeriggio, un balsamo formidabile per le sue malinconie. E nel calore e nella gentilezza della gente che viene qui, un eccellente medicamento per ogni malumore. Se ne fidi, mio caro!"
"Io cerco solo un'alba perlacea, e l'odore delle resine in un abetaia, e poi se possibile stendermi sotto un carpino che mi regali silenzio. Crede sia possibile?""Oh, ma sicuro! - rispose lui. Le albe da queste parti sono una meraviglia, e se vuole, conosco un sentiero che porta ad un vero boschetto di acacie. Da non crederci il profumo che si sprigiona da quel piccolo scrigno quando si aprono in fioritura. In quanto ai carpini, ve ne sono a volontà. Dunque lei è un romantico? Formidabile, davvero formidabile!"
"Un romantico?"
"Ma sì, certo! Un romantico, e con ogni probabilità un artista, vero? Mi lasci indovinare, un pittore forse? O un poeta!"
"Sono uno studioso, per così dire. Un ricercatore, veramente. Anche se la poesia è in effetti l'oggetto della mia ricerca. O per meglio dire, i soggetti della poesia sono l'oggetto della mia ricerca."
Poi dato che avevo finito il mio cosciotto di agnello e volevo essere sveglio per la mia prima alba in quella montagna, salutai il vecchio prima che riprendesse a parlare e me ne andai a dormire.
Era ancora notte quando uscii dalla pensione. Una sottile lanugine di nuvole lambiva la luna. Presi a salire verso il picco della Costanza. Avevo trovato qualche informazione sui luoghi che il mio poeta frequentava nei suoi soggiorni da queste parti, una cinquantina di anni prima. Il picco della Costanza era uno di questi: amava specialmente salirci sul far del giorno, col fresco. Forse era lì l'alba che cercavo.
Raggiunsi il picco poco prima che un cielo color del piombo si screziasse dei primi bagliori d'aurora. Presi foglio e penna e mi misi ad osservare oriente. I primi graffi di luce sull'orizzonte furono d'un tratto inghiottiti da un ampio bagliore opalescente, quasi un latte che si riversava su tutto il panorama. Non era propriamente rosa quell'alba, ma una sorta di battesimo iridescente. Annotai qualche appunto per rifletterci in seguito, e ripresi il cammino verso valle.
Mi fermai in una locanda a mezzo monte per mangiare qualcosa e quando ero già nei pressi della pensione, a giorno fatto, incontrai il mio Kaprinsky che raccoglieva fiori.
"Mio caro, che piacere vederla così di buon ora! Ah già, mi diceva che era in cerca di albe. Dunque, è rimasto soddisfatto di quella odierna?"
"Non saprei dire esattamente. Non ho trovato il rosa che mi aspettavo, piuttosto un cielo d'alabastro graffiato d'arancio. Una cosa da togliere il fiato ugualmente, suppongo."
"Lei è un romantico, lo sapevo."
Stavo per ributtargli addosso quella stupida sentenza. Era già la seconda volta che mi dava del romantico, e la cosa stava diventando ridicola. Ma in quello stesso momento il vecchio mi lanciò un grido quasi disperato: "Non lì, la prego! Si fermi! Ecco, guardi, stava pestando un'acetosella! Le sto cercando ovunque stamani, ho intenzione di prepararne un mazzetto per miss Matilda, le piacciono talmente le acetoselle!"
Con il piede ancora a mezz'aria, feci una specie di giravolta e mi voltai diretto alla pensione. Gli tenni addosso appena lo sguardo, giusto per vedere con quanto fanciullesco entusiasmo si precipitava sull'acetosella che avevo risparmiato. Lo lasciai lì sui prati in fiore. Non avevo nessuna voglia di sapere chi fosse Matilda.
In ogni caso era chiaro che non sarei scampato al mio destino. All'ora di pranzo, quando al ristorante servivano il dessert di panna e lamponi, Kaprinsky, incurante della mia volontà, mi aveva già ragguagliato sulla sua protetta.
Matilda era la graziosissima madre di due altrettanto affabili ragazzi, Filip e Theodor. Vedova da alcuni anni, passava con i figli le vacanze estive in quella montagna, in una pensione vicina alla nostra. Il mio Kaprinsky aveva stabilito una tenera amicizia con la giovane vedova. C'era d'altronde qualcosa che potesse essere men che tenero per Kaprinsky?
Mi disse delle passioni floreali della giovane signora, delle tribolazioni della sua vita passata, del sorbetto all'amarena, della scuola militare a cui era destinato il primogenito Filip, delle birichinate del piccolo Theodor; mi raccontò della prima volta che si incontrarono, del ciondolo che le cadde per caso, della paterna comprensione per le afflizioni di quella donna, delle premure, i piccoli regali, le frasi di conforto, la gioia di vedere i due ragazzi saltargli addosso ad ogni loro incontro, le attese per l'estate successiva, per i successivi incontri.
Seguirono giornate in cui cercai i silenzi delle abetaie nelle vallate vicine, le resine profumate e trasparenti, gli aghi dei larici e dei cespugli di mughi, che certe volte andavo a raccogliere fra i roccioni inaccessibili, per farne poi piccoli fuochi odorosi.
Scrivevo appunti e rileggevo, mi portavo dietro talvolta le carte del mio poeta, per cercare di scoprirne, nei paesaggi vivi che aveva percorso, il senso emotivo, la ragione di un rabbrividire improvviso, di una subitanea, nascosta gioia allo scoprire un profumo, di quel senso di abbandono di fronte ai colori delle albe. Cercavo le origini di quelle emozioni, come un scienziato può studiare gli strobili e analizzare il percorso che ogni singolo seme compie per andare a far nascere un alberello di pino mugo negli anfratti delle rocce alpine.
Vi era in me una ostinazione perversa. Quella di piegare gli slanci delle passioni ad una specie di classificazione chimica. L'alba rosa del mio poeta era davvero rosa? L'alabastro del cielo che io vidi nella prima alba, poteva piegarsi ad un volontà del cuore, che stabiliva in rosa la sua tonalità, la sua percezione? E che significava esattamente quel rosa? E che ne era del moto di compassione che ne scaturiva, da quale profondo recesso dell'anima proveniva? Oppure era semplicemente la rètina dell’occhio a scomporre quella chimica in un’alba di perla e a restituire alla vista quella meraviglia?
Kaprinsky in quei giorni pareva perennemente di buon umore. Saltellava da un sentiero ad un altro, da un caffè ad una locanda, dalla nostra pensione a quella della sua Matilde, che ancora non avevo mai incontrato, ma che il mio omino andava a trovare ogni giorno puntualmente all'ora del tè o della passeggiata pomeridiana, ed ogni sera a cena me ne raccontava.
Una mattina lo vidi uscire dalla pensione con un grande mazzo di gigli rossi e genzianelle, adornato da piccole campanule di prato tutto intorno. Mi disse, con una gioia infantile, che era invitato a pranzo alla pensione della sua giovane amica, e che aveva deciso di preparare un mazzo di fiori con i colori che immaginava quel giorno potesse indossare Matilda. Nella borsa teneva invece due album da disegno e alcune decalcomanie da regalare ai ragazzi.
La giornata trascorse stancamente. Nei cretti terrosi dei calanchi, sui praticelli a pascolo, fra le terrazze di vigne basse a mezzo monte, maturava lento al sole un pomeriggio sugoso di fragole e melograni. Mi trascinava nei sentieri delle abetaie e delle prime stellarie in fiore una noia dolciastra e pigra, che mi faceva compagno dei voli dei calabroni, dei bombi che amoreggiavano sulle rare rose canine al limitare del bosco.
Il sole di giugno stava giusto appoggiandosi sulle cime degli abeti nel costone più alto della montagna di fronte, quando sentii da lontano un verso di passi strascicati sul sottobosco e una specie di mugghìo umano, soffocato e dolente. Più che i passi si avvicinavano, scorsi fra i profili dei tronchi di carpini, una figura che avanzava. La prima cosa che riconobbi fu la bombetta, poi il mio Kaprinsky alzò lo sguardo dalla sua cantilena lamentosa, e vedendomi lanciò un'urlo di strazio, piangendo parole all'inizio incomprensibili.
Quando Kaprinsky riuscì a dominare un poco quell'emozione violenta che lo squassava, potei decifrare le frasi ansimanti che stava pronunciando.
"Una sciagura! Mio dio, com'è possibile! Una sciagura, presto, bisogna chiedere aiuto!"
"Ma cosa è successo?" gli chiesi io.
"Mio dio, Matilda e i bambini sono caduti, capisce! Sono caduti lungo il costone che conduce ai calanchi! Passeggiavamo, poi loro hanno voluto scendere lungo un pendio per catturare una farfalla, e li ho visti cadere, prima Theodor, poi Filip, e dietro la loro madre che cercava di afferrarli!
Una tragedia! Non sono riuscito a scendere giù per il costone, per vedere dove fossero caduti. Poi sono corso via, non ho più fiato né forze per la corsa, la prego chieda aiuto alla pensione, corra!"
Lasciai Kaprinsky e corsi disperatamente alla pensione.
Trovai la signora Meyer e il suo aiutante Kristof, e ripetei quelle scarne informazioni che mi aveva dato Kaprinsky.
"Presto, ho trovato il signor Kaprinsky nel sentiero che porta al bosco di acacie, mi ha informato di un terribile incidente! Due bambini e una donna sono precipitati da un costone della montagna in un dirupo, non so bene. Dobbiamo organizzare una squadra di soccorso, non c'è un attimo da perdere".
"Kaprinsky?" chiese la signora Meyer.
"Sì, Kaprinsky era con loro, quando è accaduto l'incidente. E' corso via per chiedere aiuto, ma le vittime sono due bambini e la loro madre!"
"Come si chiamano?" chiese Kristof.
"Ma cosa vi importa adesso come si chiamano, neanche me lo ricordo! Insomma... la donna Matilda, e i bambini credo Filip e Theodor. Devono avere circa dieci e cinque anni, ma adesso facciamo presto!"
La signora Meyer si lasciò cadere sulla sedia con un gesto di insofferenza. Kristof invece, impassibile dietro il banco del bar, versò un grog in un bicchierino.
"Tenga - fece offrendomi il bicchiere - beva questo, io vado a riprendere Kaprinsky."
Fu la signora Meyer a raccontarmi tutta la storia.
"Kaprinsky - iniziò la Meyer - passava le sue vacanze estive molti anni fa in quelle montagne, con moglie e figli, ovvero Matilda, Filip e Theodor. Una estate di circa trenta anni fa passò un periodo di villeggiatura da quelle parti anche un capitano dell'esercito imperiale. Il capitano si innamorò di Matilda, che non seppe resistergli. Al termine di quella vacanza lasciò il marito e portandosi dietro i figli seguì a Vienna il capitano. In seguito si trasferirono sul Bosforo, dove lui fu inviato come addetto militare alla Ambasciata in Turchia. Kaprinsky non vide mai più né la moglie né i figli.
Ne rimase sconvolto ma ebbe la forza per riprendere la sua vita di rappresentante di commercio senza lasciarvi entrare più nessuna donna, e continuò a venire qui per le vacanze estive.
Ma circa sei anni fa ebbero inizio i segnali di instabilità. Cominciò a simulare incontri con Matilda e i figli, che lui immagina ancora all'età in cui li perse. Si figura di incontrarli come un vecchio amico di famiglia, di intrattenersi con loro in pomeriggi di cordiali passeggiate e chiacchierate. Al termine della villeggiatura poi inscena una disgrazia, la morte di Matilda e dei bambini.
Alcuni anni fa avevamo come ospite alla pensione un illustre psicanalista, che studiò il fenomeno di cui patisce Kaprinsky. Ne concluse che il pover'uomo rivive ogni estate la sua tragedia, cambiandone però il finale, trasformando quell'umiliazione e quel terribile colpo, in una storia e in un dolore che sia almeno accettabile, e su cui poter finalmente piangere.
Così - concluse la Meyer - da cinque o sei anni, alla fine della sua vacanza Kaprinsky simula la morte della moglie e dei figli. Spesso li fa cadere da qualche costone di montagna, altre volte li annega nel laghetto. Un anno, pensi, si inventò addirittura l'aggressione di un orso.
Ormai ci siamo abituati. Quest'anno abbiamo capito subito che aveva scelto lei, come complice della sua fantasia. Un pover'uomo, che si meritava una sorte migliore, mi creda."
5
Incontrai di nuovo Kaprinsky il giorno dopo, alla fermata dell'autobus che lo riportava a casa. Una vecchia valigia di cuoio consunto, la bombetta in mano, nell'altra il bastone di ciliegio, e ai piedi le scarpe nere lucidissime. Se ne stava seduto sul bordo della panchina con un mezzo sorriso triste che guardava in un punto lontano, infinitamente lontano.
Si riscosse dal suo torpore quando si avvide del mio arrivo. "Oh mio caro. Le giornate di vento sono sempre le più propizie per partire, non trova?"
Gli farfugliai una qualche risposta, mentre avrei voluto semplicemente mettermi a sedere accanto a lui e attendere in silenzio l'arrivo dell'autobus.
"Anche lei parte oggi dunque, giovanotto?" mi fece dopo un poco che eravamo seduti.
"Si, è tempo anche per me. Le mie ricerche qui si sono concluse, me ne torno a casa a rimettere insieme i miei appunti."
Nella corriera presi posto accanto a lui. Per tutto il tempo del viaggio se ne stette in silenzio a guardare fuori dal finestrino, le abetaie e i boschi di larici che correvano via, i campi di anemoni, le nuvole basse che si riflettevano in un verde cupo e lucente sopra i pascoli, di nuovo con quella sorta di mesto sorriso posato dolcemente su un punto al largo della sua mente.
Dopo alcune ore, quando l'autobus giunse alle porte della cittadina dove Kaprinsky abitava, si volse verso di me.
"Sa, mio caro. Ci sono cose che non si riescono a spiegare. Ci si mette una vita, e sul serio, non se ne ricava niente. Davvero, non ci si può far proprio nulla. E quando si arriva a capirlo è già troppo tardi, se ne esce pazzi per il dolore e l'impotenza. Ma lei è giovane, ne ha tanto di tempo. E non lo sprechi ad ascoltare un vecchio come me. Vede, come le dicevo, da quelle montagne se ne esce migliori. Davvero mi creda, se ne esce migliori."
Scese dall'autobus mentre il bordo della strada si bagnava al primo tramonto di una pioggerella leggera. Lo osservai allontanarsi piano sotto la pioggia, curvo sul suo bastone nodoso, la valigia di cuoio che dondolava al ritmo del suo passo incerto, la bombetta gocciolante calata sul capo. Pareva proprio un omino ridicolo e triste.