mercoledì 29 settembre 2010

La sauna

Il fruscìo ovattato del contatto elettrico del filobus numero 14 attraversava l'aria umida e nebbiosa del quartiere di Purvciems. Una notte acquosa e dal sapore di piombo.
P
ёtr Vasil'ič Dolkin uscì dal portone del suo palazzo a due piani, che l'orologio della stazione di smistamento dei tramvai segnava le due. Lo prendeva l'insonnia, da oltre dieci anni, da quando aveva creato il suo piccolo impero di immobili. Erano le preoccupazioni, l'angoscia per gli affari, l'avidità che gli attanagliava la gola e lo strozzava già al primo sonno. Tornava dal lavoro a sera inoltrata, mangiava svelto la kaša che gli aveva preparato Sonja, e dopo il notiziario in lingua russa delle dieci si infilava a letto. Poi un senso di soffocamento lo risvegliava di colpo. Si alzava silenziosamente per non svegliare sua moglie Vera, si vestiva di tutto punto e usciva. Ogni notte.
Il cielo di Riga era nero, lucido e compatto. Sembrava avesse smesso di piovere, così quella notte Piotr Vasil'ič strinse l'ombrello sotto il braccio, impugnò deciso il bastone e s'incamminò per il lungo viale che conduceva al canale. Il suo passo era breve e deciso, il bastone lo teneva più per figura. L'unico vezzo che si conoscesse a quell'uomo di mezza età grassoccio e dal colorito paonazzo, che possedeva palazzi in tutto il Baltico e nella regione di Pskov, ma che non aveva rinunciato ad abitare nel quartiere operaio dove viveva quando era un anonimo funzionario di un azienda statale sovietica che produceva materiali elettrici. Un grigio quadro intermedio, e tale era rimasto nel suo tenore di vita anche oggi che deteneva una fortuna.
Giunto nei pressi del canale scese per la piccola scaletta che dava sul camminamento. Apri la porta del locale e sentì il suono metallico dei giochi automatici nella saletta accanto alla sala del caffè. Il vecchio Grigorij gli venne incontro uscendo da dietro il bancone e si affrettò a prendergli cappotto, bastone e cappello.
"Salve Pёtr Vasil'ič, che notte impossibile eh!"
"Eh Griška, sono tutte uguali le notti. Tutte impossibili."
"Volete un bicchierino prima di andare? Ho già preparato tutto."
"No vecchio mio, niente bicchierino, ho lo stomaco in fiamme. Andiamo."
Presero lo stretto corridoio interno che dava direttamente sul canale, da cui saliva una nebbiolina fredda. Il vecchio mužik strascicava il passo rumorosamente sul pavimento di legno e ansimando raggiunse la porta della casetta numero 36. Aprì e si spostò per far entrare il suo illustre cliente. Il caldo soffocante investi in faccia Piotr Vasil'ič che si richiuse la porta alle spalle e restò solo nella minuscola anticamera. Si spogliò, appese i vestiti alla parete ed entrò nella stanza dove in una stufa sfrigolavano sotto una cenere iridescente i resti di alcuni ceppi di faggio. Il termometro della sauna segnava gli ottanta gradi. Dolkin si sedette sulla panca accanto alla stufa, prese dal secchio un mestolo d'acqua e lo versò sui sassi roventi posati sopra la stufa. Una potente nuvola di vapore caldo si alzò dalle pietre e lui ci immerse il volto che arrossì e comiciò a lacrimare. Poi prese un ramo di betulla e cominciò a battersi vigorosamente le spalle e la schiena.
Di ritorno dalla sauna Dolkin si sedette al tavolino dove il vecchio Griska gli aveva versato il tè di tiglio, che fumava attraverso un piccolo spiraglio sotto al piattino che copriva la tazza, e alcuni zakuski ai semi di papavero. Dolkin esausto per la sauna sorseggiò un po' di tè e addento un pasticcino.
Griska gli si accomodò in una sedia accanto.
"Sapete Pёtr Vasil'ič di quel tale - cominciò a raccontare il vecchio facendoglisi vicino - che cercava di vendere il suo pappagallo?"
"Racconta Griška!" fece Dolkin.
"Vedete, oggi i tempi sono diversi, si mangia in abbondanza, c'è lusso dovunque, i giovani soprattutto non ci fanno più neanche caso. Ma i giorni successivi alla rivoluzione, quelli erano terribili, sul serio. Le città non avevano di che mangiare, e si vendevano tutto alle campagne. Se uno andava in giro per le case dei contadini, ci poteva trovare ogni ben di Dio, cassapanche come nuove, specchi che sembravano appena usciti dalla vetreria, orologi a cucù, attaccapanni di bronzo. I cittadini si vendevano qualsiasi cosa per avere un sacco di farina, qualche uova, un po' di patate. Un tizio che viveva in città aveva una moglie a cui era venuta l'uggiola di pane con il lardo."
"Ih, pane col lardo - sogghignò Dolkin. Anche a quei tempi le mogli ne avevano di voglie..."
"E questa, Pёtr Vasil'ič, doveva essere una di quelle che non ne lasciavan persa una. E così spinse suo marito a prendere il suo pappagallo e a portarlo in campagna, per venderlo a qualche contadino. Sapete come va con certe donne, non le sposti da un'impuntatura neanche con sei cavalli da tiro."
"Lo so, vecchio mio, eccome se lo so! Va' avanti."
"Dunque quel tizio ci andò in campagna. Il pappagallo era proprio bello, rosso e verde, come nelle stampe. Ma non si comportava come quei pappagalli allevati da qualche comune cittadino russo, che imparano a dire solo "stupido". No, quello veniva dalla collezione di animali esotici di una contessa che era deportata e doveva vendere i suoi beni per strada prima che la portassero via. E quel pappagallo non faceva che ripetere "charmant". Insomma, fu un bell'affare per quel tipo, che lo acquistò per pochi copechi ed era sicuro che avrebbe fatto un grande effetto fra i contadini nelle campagne."
"Già, voglio proprio vedere il contadino che a quei tempi si comprava un pappagallo" commentò Dolkin.
"Beh uno lo trovò proprio all'inizio del suo viaggio - continuò Griška - ma per il pappagallo offriva solo un sacchetto di grano, e lui rifiutò. Come faceva a tornare dalla moglie con un sacchetto di grano se lei pretendeva pane e lardo."
"Dio ci scampi!" fece Dolkin.
"Del resto quel tizio era sicuro di vendere il pappagallo per molto di più. E in effetti nei villaggi dove si recava tutti si interessavano al pappagallo. I bambini, vi potete immaginare in quegli anni dei bambini di campagna alla vista di un pappagallo, impazzivano, lo stuzzicavano con i bastoncini, gli scompigliavano le piume. Ad un certo punto, in un villaggio oltre il Volga, una vecchia contadina stava per comprarlo per un bel po' di farina, ma un soldato si volle mettere in mezzo e la sconsigliò. Gli disse che un pappagallo che non diceva "stupido", ma solo una incomprensibile parola francese, era di certo un pappagallo falso. Così l'affare andò a monte."
Dolkin seguiva il racconto compiaciuto, mentre mangiucchiava i pasticcini.
"Il tizio - prosegui il vecchio Griška - continuò a portare in giro il pappagallo, che però era stravolto, tutto arruffato, e aveva persino smesso di mangiare. Quando alla fine trovò un contadino interessato a comprarlo e sollevò il panno con cui teneva coperta la gabbia per mostrarglielo, si accorse che il pappagallo giaceva sul fondo con le zampe per aria. Si può immaginare il suo sconforto! Allora il contadino mosso a compassione si offrì di comprargli almeno la gabbia, che a prezzo di mercato a quei tempi valeva sei uova. E fu davvero un peccato perché quel contadino era un appassionato di pappagalli, e sarebbe stato disposto a comprarglielo per quattro sacchi di farina, malgrado lo "charmant". Sapete a quei tempi quanto di quel lardo ci si poteva comprare con quattro sacchi di farina?"
"Eh, così va la vita - fece Dolkin. A volte è una questione di tempo e di fortuna. Ma ora forza, lasciami indovinare: Babel’?"
"No" rispose Grigorij.
"Allora Pil'njak!"
"No, nemmeno Pil'njak".
"Allora dunque, dimmelo tu - disse Dolkin. Hai vinto una mancia supplementare anche stanotte."
Il vecchio Griska accennò una sorriso: "Zoščenko."
"Certo, lo dovevo immaginare! Solo Zoščenko poteva scrivere una storia così! Però, vecchio mio, se ti fossi messo a narrare un racconto di Zoščenko, in quegli anni là, avresti fatto una brutta fine. Tieni e fatti una bevuta" gli disse infine Dolkin allungandogli un biglietto da dieci lats, cinque per la storia, e altri cinque per non aver indovinato l'autore.
Uscì dal locale che stava quasi albeggiando. Il cielo scuro di Purvciems mandava brevi bagliori d'aurora fra le nuvole plumbee.
Il vecchio Grigorij osservava dalla piccola finestra accanto al bancone del bar il suo benefattore allontanarsi. Era già da cinque anni che immancabilmente Dolkin passava tutte le notti alla sauna e lasciava una buona mancia al vecchio per le storie che ogni volta, dopo la sauna, Grigorij gli raccontava.
Gli piaceva che durante le sue notti insonni, il vecchio lo conducesse attraverso le storie di Puskin, di Bunin, di Afanas'ev, di Babel' o delle vecchie byline.
E sulle guance cadenti e ispide di rada barba bianca di Grigorij si allungò un amaro sorriso, al pensiero dei suoi anni siberiani, quando nel lager si guadagnava un giorno di vita per volta raccontando ai criminali comuni i romanzi dell'ottocento. Lo tenevano al caldo, gli davano da mangiare, lo proteggevano solo per le storie che sapeva raccontare.
E pure adesso che era vecchio doveva un pezzo del suo pane a quelle storie. Questo gli pareva perfino più strano.

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